Esperienza e fantasia. Ritratto di Enrico Pea (1951)

«Rassegna lucchese», n. 4, Lucca, aprile 1951, pp. 1-11; con lo stesso titolo in «La Fiera letteraria», a. VIII, n. 26, Milano, 28 giugno 1953, p.4.

Esperienza e fantasia. ritratto di Enrico pea

Penso che in Pea l’antipatia per il semplice documento di vita sia ormai pari alla diffidenza per ogni lirismo senza controllo di realtà («la fantasia colorisce le cose non come sono in realtà e se ti nutrisci di questi sogni avrai un risveglio nemico» si legge nel Trenino dei sassi), e certe vecchie conversazioni sugli americani di piú facile successo e viceversa su narratori di fantasia divagante e fittizia me lo confermano da tempo in accordo con lo sviluppo piú maturo della sua opera nel suo intimo superamento di forme piú immediate e torbide, di abbandoni a grezze notazioni e impressioni documentarie o viceversa a sfrenati impeti lirici. Ed è perciò che il suo cammino corre vicino, ma ben distinto rispetto a quello di tanta narrativa fra la «Voce», la «Ronda» e «Solaria» (i chiari termini del sua tempo culturale), in cui spesso l’accordo fra esperienza e fantasia fu limitato da una eccessiva fiducia nell’autobiografismo piú immediato e si ridusse ad un frammentario sostegno di belle pagine o diverso problema astratto ed intellettuale.

Il cammino di Pea è partito da esigenze piú divise ed incerte – anche se unite nel segno di una prepotente ispirazione personale che colorisce fortemente anche le possibili origini letterarie fra dannunzianesimo e bozzettismo provinciale toscano – in una irrequieta oscillazione fra idillio, leggenda cantata e rappresentazione intensa fino alla ossessione allucinante, al lampeggiare di una materia turbata da una vitalità e da un lirismo ugualmente imprecisati. In quegli inizi lontani dalle Fole a Montignoso allo Spaventacchio esperienza e fantasia non avevano trovato accordo, equilibrio ed anzi il risultato della ricca esperienza vissuta, incerta nella sua esuberanza fra l’osservazione lucida («il mio istinto: sono di servizio ad un osservatorio e guardo passare la vita») e la partecipazione commossa alla vita degli uomini, nello sfuggire ad una semplice composizione bozzettistica e veristica si altera in una accesa e disordinata trasfigurazione fantastica, in cui spiccano con esagerato rilievo unilaterale motivi poetici fermentanti di sensualità e lirismo. E dal loro reciproco accentuarsi senza vero equilibrio nacque quella prova cosí interessante e sconcertante di narrazione lirica che è Moscardino, uno dei nodi essenziali nel complesso e laborioso svolgimento di Pea, scrittore nativo ma cosí lentamente maturato alla sua misura piú alta alla precisazione veramente artistica del suo temperamento poetico. Lí, meglio che nel Volto santo, le qualità essenziali di Pea si portavano alla massima tensione per poi ordinarsi e farsi piú consapevoli artisticamente nella fusione sicura e nel dominio del Servitore del diavolo. E si può forse rimpiangere quella vitalità per eccesso, quel turgore di forza indiscriminata di esperienza e di impeto lirico che si notavano nelle opere fino a Moscardino? Si potrebbe davvero giudicare quella prima epoca come la piú vera stagione di Pea, legata ad un senso piú libero di istinto e di ribellione, che pure tanto poterono piacere, per contrasto negli anni della raffinata civiltà stilistica della «bella pagina» del saporito commento culturale, del frammento e del saggio, e che certamente salvano Pea da ogni semplice bozzettismo, dalle ricerche artificiose della naturalezza strapaesana, dal colorismo impressionistico e dialettale di tanti toscani? In realtà quella forza, quell’impeto quella capacità lirica nativa quel senso istintivo della vita e dei suoi motivi essenziali e primitivi (per cui Pea piacque ad uno Svevo e ad un Montale) non si annullarono davvero dopo Moscardino né persero il loro valore essenziale nell’opera posteriore. E come nella ricerca di un ordine umano e di una saggezza tradizionale in Pea non si è perduto, per fortuna, il fermento di una insopprimibile esigenza di libertà, di giustificazione intima di ogni rapporto tra gli uomini, di rottura iniziale e ribelle che, a ben guardare, si affermano anche là dove l’autore vorrebbe forse piú domarli e smorzarli (una vena di anarchico nel patriarca, un fremito di ribelle nel credente pacificato con la società tradizionale e con istituzioni), cosí tanto piú chiaramente in campo artistico il dominio e l’accordo interiore corrisposero a sicure conquiste e al precisarsi di un mondo poetico animato di personaggi e di vicende organicamente rappresentati in un piú chiaro disegno dell’animo che li giustifica e li muove nella fantasia e nel ricordo costruttivo dello scrittore.

E all’accordo di esperienza e fantasia si aggiunga l’accordo piú sicuro di osservazione e simpatia (che vivono inseparate nel Pea migliore), di memoria e racconto (e si lasci pure da parte la parola «romanzo», che indica per contrasto la riluttanza della ispirazione alla costruzione piú distesa e sinfonica) e, nel linguaggio, di musicalità e movimento. Nel Servitore del diavolo (la Figlioccia indica piú qualità di taglio che non la felice misura interna del primo racconto) Pea si liberava degli eccessi del lirismo e dell’indugio documentario e fra la Maremmana e il Forestiero (o meglio, fra le loro parti piú veramente realizzate e organizzate in genuini racconti) la fantasia lirica di Pea si adeguava alla realtà della sua esperienza, modi lirici e modi narrativi (per usare la formula di Olobardi) si compenetravano e personaggi e vicende (a volte una semplice apparizione, come quella del pellegrino spagnuolo nella Maremmana) erano finalmente nel tono essenziale di questo accordo esemplare: la fantasia svolge, non sconvolge, il dato dell’esperienza e del sentimento, del ricordo e della partecipazione, i fermenti piú vitali dell’irruenza giovanile si sciolgono in una visione salda e precisa, in un mondo politico denso e limpido.

Ma proprio questo accordo fra esperienza e fantasia nel suo limite piú sicuro era legato a quello fra memoria e racconto (ed è lo stesso Pea che ci avverte come la sua narrazione sia frutto della sua diretta esperienza) e certe pagine del Trenino dei sassi e poi di Magoometto e piú tardi di Vita in Egitto ci convincono di come il narrare dalla propria esperienza attenta e commossa (non mai fredda memoria impassibile) sia il piú vero narrare di Pea: un narrare politico e concreto in cui quella che in altri potrebbe essere solo nostalgia del proprio passato si commuta in calore e nitidezza, in poesia dell’esperienza rivissuta in simpatia con vicende e persone non astrattamente costruite, conosciute e giudicate nel vivo della propria vita, della propria ansia di libero ordine umano, di amore della complessità e naturalezza dei sentimenti. Le complicazioni di piú esplicite velleità moralistiche e storiche (pur nate da una radice genuina di giudizio della società attuale e da desiderio genuino di civiltà naturale e cristiana) sono assenti dalla narrazione piú vera di Pea e il suo tono artistico si alza indubbiamente quando nei libri del dopoguerra (Lisetta, Malaria di guerra, Zitina, Rosalia) si passa dai tentativi del romanzesco piú esterno al limpido e denso fluire del ricordo. E si pensi come ad esempio molto probante al poco noto e calcolato Rosalia (Roma, 1945) in cui la debolezza dei due romanzi che si intrecciano – quello di Van Le Neppe e quello di Dalle Piagge e della siciliana, questo cosí interessante come ulteriore simbolo della moralità di Pea: il matrimonio e i figli rasserenano la colpa e l’unione irregolare, ma a lor volta la purezza e la serenità son rese piú vive ed intense da un’iniziale ribellione e frattura di legami convenzionali e senza sanzione di intimità – viene dimenticata di fronte alla bellezza dell’iniziale racconto con il viaggio al paese arabo, l’ingresso nell’albergo del vecchio livornese mussulmano («Tre scalini di fuor e un portone troppo largo per essere ad un solo battente. È in parte traforato; sí che di fuori si scorge la scala, e stando di dentro si può vedere chi è che bussa. Dal pianoterra, dunque, una scala conduce direttamente tutta rampa al piano di sopra. Si bussa e si sbircia traverso i fori. Cassano tira una corda vicino alla scala, sgancia il saliscendi. E spalancata che è la porta vedi il sommo di quella scala una specie di befanotto; un vecchio arabo magro e lungo: barbetta bianca e stentata. Tarbusc dietro la nuca. Occhiali di ferro a stanghetta in fondo al naso, tanto che gli occhi guardano di sopra ai vetri. – Cassano sono io – grida subito il cosino che ho detto: – Ho capito chi siete – mi dice – Salite. Vi aspetto da un pezzo. Ho condito l’insalata un’ora fa. C’è il capretto che gira e suda grasso – e quando sono in cima alle scale, mi abbraccia e saltella come un ragazzo e dice dalla contentezza: – Quando vedo un italiano divento matto»).

Cose vive, indimenticabili, e fissate con una scrittura precisa e nitida che corrisponde nelle pagine felici di Vita in Egitto al ritmo costante di agio interiore e di simpatia alle vicende e alle tragedie degli uomini visti e ritornati a vivere con la doppia poesia del loro significato umano e della loro intrinseca vita dentro la vita stessa dell’autore. E troppo presente ai lettori è il risultato di Vita in Egitto perché si debba qui ripetere quanto in quel libro testimonia ancora delle qualità piú vere di Pea e di come il suo piú vero romanzo sia costituito effettivamente dal racconto della sua memoria, compatto anche se affiorato in racconti staccati ed uniti da un legame di comune atmosfera e di comune interesse umano. Sicché ci pare che nel Pea piú maturo e precisato nei limiti della memoria sia stato davvero raggiunto quell’accordo di fantasia ed esperienza che è la sua meta piú originale e che distingue la sua prosa, la sua creazione di proporzioni politiche e pur sempre sapide di concretezza e di realtà, come avviene negli artisti piú duraturi di fronte ai fugaci effetti delle invenzioni contenutistiche e al dubbio fascino dei vagheggiamenti calligrafici o dei facili abbandoni lirici.